Una buona percentuale delle persone che mi contattano
ha un problema in comune: vorrebbe disfarsi delle proprie preoccupazioni eccessive. Le nostre preoccupazioni oscillano dalla
paura per l’esistenza delle centrali nucleari fino alla preoccupazione per la puntura
di un piccolissimo insetto. Probabilmente, Wayne è colui che ha saputo
riassumere questa sensazione in una frase perfetta: “la preoccupazione è endemica della nostra cultura”.
preoccupazioni sia sano, al contrario. Normalmente uno stato di preoccupazione
cronica porta a vani tentativi di controllare l’ambiente circostante assumendo
una postura ipervigilante, che termina nel migliore dei casi con il provocare
seri problemi alla nostra capacità di pianificare il nostro futuro (perché può
anche contribuire a scatenare diverse patologie come diabete, ipertensione o
accidenti cerebrovascolari e cardiovascolari).
intrinseca nelle persone (negli USA, secondo l’Istituto Nazionale di Salute
Mentale, si stima che tra il 2 ed il 3% della popolazione ne soffra); solo nel
1980 si iniziò ad affrontare seriamente questo problema. A quell’epoca, Thomas
Borkovec, psicologo dell’Università Statale della Pensylvania, scoprì che i
pensieri intrusivi sarebbero la principale causa di insonnia.
maggiori ricercatori nel campo delle preoccupazioni umane, suggerì tre grandi
fonti di preoccupazione: i pensieri ricorrenti, la evitazione dei risultati
negativi e l’inibizione delle emozioni. Curiosamente, questo psicologo scoprì
che le persone che tendono a soffrire di preoccupazioni croniche, tendono a preoccuparsi per fatti che raramente si verificano.
Hoffmann, psicologo dell’Università di Boston, utilizzò il EEG per misurare l’attività
della corteccia prefrontale, prima e dopo che 27 studenti facessero un discorso
in pubblico. In questo modo fu possibile provare che l’attività della corteccia
frontale sinistra aumenta quando le persone si preoccupano, e per questo motivo
si ipotizza che questa zona del cervello svolga un ruolo essenziale nelle
preoccupazioni.
ricercatori hanno affermato che mentre più ci preoccupiamo per qualcosa tanto
più quest’idea diviene reale e incontrollabile. Nel 1987 Daniel M. Wegner aveva
già scoperto che molte persone, quando tentano di evitare di pensare ad uno
specifico tema, questo termina per tornare una ed un’altra volta ancora alla
loro mente producendo l’Effetto Rebound.
esperimento venne chiesto alle persone di non pensare a un orso bianco. I
partecipanti restavano soli in una stanza con un microfono e una campanella e
dovevano parlare di qualsiasi tema a loro scelta. Ad un certo momento veniva
interrotto il loro discorso e si chiedeva loro di non pensare ad un orso
bianco. Ogni volta che la persona pensava ad un orso bianco doveva suonare la
campana. In media, ogni partecipante suonò sei volte la campana nei cinque
minuti seguenti dopo avere ricevuto l’ordine.
principale problema nell’ordine di “non pensare” sarebbe dovuto a un meccanismo
consapevole di evitamento; l’idea continua nella nostra mente e così noi
continuiamo a rimuginare le stesse preoccupazioni. Un’altro meccanismo a
livello inconscio scorre parallelo al nostro tentativo cosciente di eliminare i
pensieri indesiderati e si verifica nel fatto che assumiamo una attitudine
ipervigilante che sensibilizza il nostro cervello in merito al tema che
desideriamo evitare. In questo caso l’amigdala e l’insula anteriore sarebbero
le principali responsabili.
pubblicato uno studio sulla rivista Psychological
Science, ne quale si apprezzava l’attività cerebrale dei partecipanti
quando veniva loro data la prospettiva di perdere molto denaro. Si rilevò allora,
un’attività elevata dell’insula anteriore. I ricercatori conclusero che questa
regione del cervello si attiverebbe in risposta alle preoccupazioni.
Curiosamente, nel 2009, Jack Nitschke, psicologo dell’Università del
Winsconsin, apprezzò un’attivazione dell’amigdala quando le persone erano in
attesa di vedere immagini che le disturbavano.
anche se le preoccupazioni scatenano i nostri circuiti emotivi (fondamentalmente
l’amigdala e l’insula), le persone che soffrono di preoccupazione cronica
mantengono le loro risposte emotive sotto controllo, ragione per la quale si
postula che il vero meccanismo cerebrale di base della preoccupazione cronica
radichi nel lobo frontale.
è molto importante dato che esistono molti specialisti che suggeriscono che le
persone con preoccupazioni croniche comprometterebbero la capacità fisiologica
del corpo per reagire ad eventi traumatici, così che sarebbero più propensi a
presentare problemi cardiovascolari. A questa conclusione sono giunti gli
specialisti delle università della Columbia e di Leiden, che hanno potuto
apprezzare come lo stato di preoccupazione cronica aumenta il rimo cardiaco a
riposo ma nello stesso tempo riduce la variabilità del ritmo stesso. In altre
parole, il loro cuore ci impiega molto più tempo a tornare ad un ritmo normale
quando si produce un’alterazione del ritmo stesso. Come si può immaginare,
questi periodi prolungati di stress debilitano il funzionamento del sistema
immunitario ed endocrino.
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